Farfa nel tempo..., tra i ricordi di Stefano Simonetti
ago122022

Continua il viaggio tra le memorie di coloro che hanno vissuto e respirato ogni angolo dell'Abbazia e il suo borgo. Spazi che il tempo ha trasformato attraverso l'opera dell'uomo che con una mano ha conservato e con l'altra lo ha adattato alle necessità del suo tempo.

Oggi siamo con Stefano Simonetti, professore di lettere e studioso appassionato di storia, compresa quella di Farfa. Con gli occhi di Stefano – possiamo dargli del tu! – entriamo e qualche volta usciamo dai confini prettamente farfensi perché la sua stessa natura di erudito lo porta a vivaci collegamenti che abbracciano una più ampia storia, quella che insegna ai suoi studenti del Liceo linguistico e tecnico-economico a Cinecittà est.

Vive a Roma con la moglie Augusta e quasi tutti i fine settimana raggiungono la loro bella e accogliente casa prossima all'Abbazia, in via del Fontanone. Un viaggio iniziato nel 1972.

"Avevo 17 anni quando mio padre, Rinaldo Simonetti, decise di prendere in affitto questa casa, non molto distante dalle case dei suoi cugini che qui risiedevano – racconta Stefano -. Nato a Castelnuovo di Farfa nel 1920, andò a vivere molto presto con i suoi genitori – i miei nonni - a Roma ma non rinunciando mai alle gite domenicali per incontrare i familiari. Un viaggio abituale e rituale che mio padre ha continuato anche dopo con noi. Poi un bel giorno gli dissero che a Farfa si era liberata una casa. Me lo ricordo ancora. Era il mese di settembre del 1972. Eravamo tutti emozionati. Finalmente avevamo una casa dove sostare, riposare, incontrare amici e parenti nel territorio amato. Un amore che è cresciuto come i fiori che innaffio prima che i raggi del sole arrivino perpendicolari sui petali colorati. Io ho continuato la tradizione insieme a mia moglie e nostra figlia Ilaria che, sebbene sposata e indaffarata, ci raggiunge spesso durante le vacanze farfensi.

All'epoca c'era il Priore Dom Guglielmo Placenti di cui ricordo l'accento siciliano. Proveniva dall'Abbazia di San Martino dalle Scale di Palermo. Sebbene fossi nell'età in cui si è più attratti dalla chiassosa vita cittadina, provai sin da subito il piacere silenzioso nato dall'incanto che ancora oggi sento. E già allora mi piaceva osservare ogni dettaglio per poi fare un lavoro di ricerca sulle pagine di un vecchio libro. Mi chiedevo quale storia avrei incontrato e quale responsabilità avrei avuto nell'occupare uno spazio di cui sentivo il peso. E così mi documentavo ma non solo. Amavo ascoltare le voci degli anziani e annotavo tutto in un quaderno che oggi ho tra le mani. E poi ci sono le foto che mi cullano lontano ma anche vicino perché continuo a fotografare per meglio capire le differenze sancite dal tempo.

Questa casa doveva essere la prima del blocco di case che andava giù, fino all'arco. Prima della seconda metà dell'Ottocento Farfa era piena di case molte delle quali furono demolite su ordine del Cardinale Luigi Lambruschini per la costruzione del palazzo vescovile di Poggio Mirteto. Ma tutto questo si può vedere dalla stampa antica di Farfa. Era un paese enorme con le case a schiera che occupavano anche lo spazio poi diventato Parco Cremonesi e arrivavano in alto, fino al parcheggio".

Stefano si ferma come se stesse sfogliando, ascoltando e selezionando le pagine studiate e i racconti tramandati dagli anziani.

"Il borgo di Farfa è legato alla nascita della grande fiera che nel Medioevo si svolgeva nella zona di Granica, a fondo valle, luogo più facilmente raggiungibile dalle mercanzie che percorrevano la Salaria – continua Stefano -. Dunque è rinascimentale e non del periodo medievale le cui tracce riguardano solo l'Abbazia che con la cultura umanistica si aprì alla società civile (lo dimostrano anche le trasformazioni architettoniche della stessa). Siamo tra il Quattrocento- Cinquecento.

Per la costruzione delle case vennero maestranze dalla Lombardia che avevano particolari competenze edilizie. Le strade dovevano essere larghe e anche il tipo di villaggio prevedeva misure che i muratori locali non erano in grado di realizzare. In Lombardia c'erano i famosi maestri Comacini che già nel Medioevo erano specializzati nel taglio del legno per fare le travi. Le case, infatti, venivano tirate su con le travi di legno che percorrevano tutto il perimetro della casa del primo piano per poi proseguire con il secondo.

La maggior parte degli edifici erano "casa e bottega" e i restanti delle locande. Ancora oggi possiamo notare un primo piano con la bottega e a fianco l'ingresso con una scala che porta al piano di sopra dove, all'epoca, nei periodi di fiera, alloggiavano i mercanti o famiglie ad essi legate alle quali lasciavano tessuti e lana per lavorarli a domicilio nel periodo invernale e realizzare i capi di abbigliamento che avrebbero fatto parte della mercanzia da smerciare durante le fiere.

Come ho già detto il borgo era molto più grande e ogni strada era specializzata in un'attività commerciale con la via principale dedicata ai panni e alle sete – detta via dei Panni e delle Sete – o anche quella a ridosso dell'Abbazia denominata via delle Droghe e delle Cere con prodotti provenienti dall'Oriente. E poi c'erano le locande che accoglievano i commercianti.

La casa dove abitiamo è stata una delle prime locande costruite e risale intorno al 1480. Le stanze sono molto piccole e dall'altezza delle porte si deduce che all'epoca le persone fossero molto basse. Si può fare un parallelo tra questa e l'ultima locanda costruita a metà Cinquecento (è quella dove oggi risiede l'Associazione del Fara Music) che presenta spazi molto più ampi. La locanda è durata fino all'Ottocento con il decadere delle fiere che non corrispondevano più al nuovo sistema economico legato alla borghesia e al capitalismo. Per cui tante case rimasero abbandonate. Per questo motivo a metà Ottocento il cardinale Lambruschini decise di smontare le pietre di un gran numero di case per la costruzione del palazzo vescovile mirtense. E rimase quello che vediamo oggi solo che al posto delle botteghe, mi hanno raccontato gli anziani, c'erano le stalle con capre, mucche e pecore.

La comunità monastica rinacque con il Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster che inviò un drappello di monaci benedettini a Farfa. Il borgo, invece, riprese vita alla fine degli anni Trenta grazie al conte Volpi di Misurata con le famiglie artigiane provenienti dalle Marche, dall'Abruzzo e dal Veneto (il Volpi era veneziano). Quindi maestranze molto abili nella manifattura e anche nel commercio. Il Volpi, infatti, aveva acquistato il monastero e il borgo che, subito dopo l'Unità d'Italia, con il passaggio al Demanio dello Stato, furono messi in vendita ai privati.

Il conte investì ingenti capitali sul restauro sia del complesso abbaziale, che poi lasciò in donazione alla comunità monastica, sia del borgo. A tal proposito gli anziani, in particolare un vecchio monaco, Padre Serafino, raccontavano che quando arrivava per villeggiare nell'abbazia divenuta sua residenza, portava spesso con sé altri gerarchi del fascismo per giocare nel campo di bocce che si trovava dietro le cucine.

Tornando alla casa dove siamo arrivati cinquant'anni or sono, e che oggi è suddivisa in diversi appartamenti con diversi affittuari, nella parte bassa c'era la cucina della locanda e le sale dove si mangiava. A quei tempi i bagni si chiamavano latrine e, sebbene fossero una prosecuzione della struttura muraria, rimanevano esterni alla casa. Il nostro bagno, al quale oggi possiamo accedere dall'interno, ha ben 500 anni!

Le stanze del secondo e ultimo piano erano gli alloggi per i forestieri. A fianco dell'entrata della nostra abitazione c'è anche un pozzo che trovammo murato. Mi ricordo che quando battevo sentivo il vuoto. Allora ho fatto togliere la copertura in mattoni e, infatti, c'era uno spazio vuoto di qualche centimetro dalla terra con cui nel corso dei secoli era stato riempito.

Il muro esterno era ricoperto dall'intonaco che, su autorizzazione della Fondazione Cremonesi, ho fatto togliere (solo la parte dell'edificio in cui abitiamo) per riportare alla luce l'antica pietra. Sopra il pozzo, attaccato al muro, c'era un pezzo di ferro arrugginito. Probabilmente c'era una carrucola con la quale si prendeva l'acqua. Ho cercato di ripristinarlo con i paioli. Insomma quel peso che sentivo nell'attraversare l'uscio della casa sabina, era la Storia che desideravo rispettare e conservare. Anche le scale esterne sono pezzi da museo! Le porte pure. Risalgono al Cinquecento e le abbiamo fatte restaurare. Dietro al portone d'ingresso c'è ancora il vecchio catenaccio e l'antica serratura.

Ma la storia di questa casa è estremamente articolata. Sopra la nostra porta d'ingresso sul muro c'è il simbolo della melagrana in terracotta che diverse fonti associano alle famiglie ebraiche. A tal proposito ho acquistato al Museo della Sinagoga un interessante libro "Lazio – itinerari ebraici. I luoghi, la storia, l'arte" di B. Migliau e M. Procaccia, ed. Marsilio Regione Lazio, 1997, dove, a pag. 54, si parla di Farfa.

E' un documento prezioso nel quale si legge che un piccolo nucleo di ebrei abitava nell'area dell'abbazia a partire dal 1402 quindi ancor prima che iniziassero i lavori di costruzione del borgo! E nello stesso documento si legge che nel Cinquecento ci fosse a Farfa la contrada degli ebrei, nell'area della fiera dove venivano concesse loro botteghe in affitto dagli abati. Dunque si può presumibilmente pensare che la locanda fosse gestita da una famiglia ebrea.

Ritornando a tempi a noi più vicini, a cavallo tra '800 e '900, prima del Volpi, la residenza fu acquistata dall'ingegner Vitali, anch'esso ebreo, che la comprò dai famosi banchieri inglesi Morgan che subito dopo l'Unità d'Italia, così come molte altre società straniere, investirono nelle bellezze italiane e tra queste anche l'Abbazia farfense. L'attuale via degli Inglesi è legata alla presenza di questa colonia britannica. L'ingegner Vitali veniva qui in villeggiatura da Roma, dove abitava in una villetta di via dei Gracchi, quartiere Prati, con la moglie Emilia, una contessa torinese e le due figlie, Fede e Giorgina.

Ma la storia continua. Dopo il Vitali - caduto in rovina a causa degli ingenti debiti del genero, marchese Alimena, un nobile calabrese accanito giocatore di corse dei cavalli – arrivarono nel 1928 le suore domenicane del Sacro Cuore! Erano di Catania e rimasero fino agli anni ‘40. La madre superiora si chiamava suor Crocifissa, le altre: suor Sabina, Isabella, Beatrice; la maestra d'asilo suor Margherita; le cuoche suor Benedetta, suor Eufemia e suor Biagina; la maestra di ricamo suor Ambrosina.

Nell'area sottostante tenevano un asilo mentre al piano di sopra –adibito come alloggio – gestivano anche una scuola di taglio e cucito per le ragazze della zona. E chi non poteva andare durante la settimana perché impegnata nei lavori agricoli, aveva la possibilità di imparare la domenica. La maestra di ricamo suor Ambrosina fece uno stendardo con il Sacro Cuore di Gesù per la ricorrenza del Corpus Domini.

Quando negli anni Settanta-Ottanta venivo a Farfa con i miei amici per trascorrere una domenica spensierata si facevano le foto di gruppo per immortalare la nostra gioventù. Una volta il mio amico Paolo De Lillo, oggi dottore e proprietario di una farmacia a Roma, mi raccontò la sorpresa di suo padre alla vista della nostra casa. La conosceva benissimo! E raccontò che nel 1943 vi era stato come rifugiato. Era tenente dell'esercito e durante l'armistizio le suore lo nascosero proprio tra queste mura perché i soldati italiani che non giuravano fedeltà alla Repubblica di Salò venivano presi dai fascisti e dai nazisti e portati nei campi di sterminio o ammazzati. Fu una grande emozione.

Poi il convento passò alle suore Pastorelle fino agli anni Cinquanta e a seguire alle suore dell'Immacolata Concezione d'Ivrea fino agli anni Sessanta! Infine, dopo diverse famiglie, siamo arrivati noi per curare, aggiustare e far crescere i fiori che coltivo nel giardino che io e Augusta condividiamo con i vicini ma anche con i passanti. L'amore nato mezzo secolo fa cresce ogni giorno più rigoglioso insieme alla natura e alla spiritualità che anima Farfa!".

Foto: Stefano Simonetti