Terzo appuntamento per la nostra rubrica Farfa nel tempo...! Frammenti di storia che emergono dalle memorie di chi ha vissuto l'Abbazia e il borgo di Farfa negli anni passati. Ricordi, profumi, atmosfere che raccogliamo insieme alle foto datate per rispolverare piccoli spazi che fanno parte di una grande storia da conservare e proteggere.
Oggi incontriamo Sauro Duranti nato a Mompeo e prezioso testimone di una Farfa lontana ma ancor viva nelle stanze della sua memoria. Aveva 13 anni e doveva lavorare. Era il 1957 e il parroco di Mompeo don Dante Timperi gli propose di andare a Farfa dove il Priore don Angelo Cesana cercava dei camerieri. Partì insieme ai suoi compaesani e coetanei Ludovico Tiburzi e Venceslao Salustri alla volta dell'Abbazia.
"Eravamo abituati a faticare e non ci spaventava niente. Al nostro arrivo fummo accolti dal Priore don Angelo e un suo collaboratore addetto al tovagliamento, fra Mauro. Era la fine del mese più caldo del 1957. All'inizio sembrava uno scherzo ma strada facendo capimmo che c'era poco da ridere con 150 ragazzi interni ai quali si doveva preparare la colazione secondo fasce orarie che non potevano oscillare neanche di un secondo.
Sveglia alle 6 e in marcia! Direzione refettorio che all'epoca era nell'attuale Sala Schuster. Tazze, piatti e contro piatti dovevano essere sistemati sui lunghi tavoli dove alle 7:45 i collegiali avrebbero fatto il loro primo pasto. Me li ricordo ancora il rumore delle stoviglie pesanti e i passi dei giovani più grandi di me! Le voci ogni tanto si alzavano ma trovavano subito l'ammonimento del rettore don Franzoni.
Quando entrava con le orecchie rosse e si metteva le mani sotto al mantello la stanza diventava più silenziosa di una chiesa. Erano i segnali di un malumore che era meglio non crescesse. E poi il suo campanello parlava chiaro: alla prima scampanellata ancora un po' di libertà ma alla terza non fiatava più nessuno! A fianco a lui, in un tavolo a parte, c'era il vice rettore don Michele e i vari assistenti e tra questi anche un responsabile che lavorava all'Istituto Cremonesi con i ragazzi di "Arti e Mestieri". E' capitato di rado di vederli al tavolo del refettorio ma più spesso entravano in Abbazia per fare le docce.
Il vero protagonista della prima colazione era il latte che arrivava a fiumi direttamente dalla stalla prossima all'abbazia dove il mezzadro, Ettore Caproni, lo mungeva ancor prima dell'alba. Io stesso ne bevevo una tazza al risveglio e ne ricordo il sapore denso e così corposo da leccarmi i baffi!
A differenza del periodo invernale, con il sopraggiungere dell'estate il latte era così abbondante che per consumarlo si cuoceva con il riso. Era una specialità di cui alla fine ci si stancava perché riempiva i piatti della colazione e della cena, ogni giorno! Per non perderne neanche una goccia, Fra Mauro trovò un modo semplice ma faticoso di fare il burro. Si versava in una piccola damigiana e con la forza delle braccia si scuoteva. Pian piano diventava sempre più denso e burroso. Con il latte di oggi non si potrebbe fare così come il poco grasso non lascia più i baffi.
Erano quattro le mucche mongane che il mezzadro portava a pascolare nella tenuta detta Clausura che ancora oggi è un appezzamento di terra che parte da sotto l'Abbazia e arriva al fosso Ariana (che ha origine a Toffia). Ettore si occupava anche dei maiali. A fianco della tenuta c'era il porcile che a differenza del refettorio non conosceva silenzio. Anche loro avevano un ruolo centrale nel nostro ultimo fare. Alla sera dovevamo riempire i bidoni con tutti gli avanzi della giornata che la mattina sarebbe stato il pasto abbondante e nutriente degli amici rosati. Li chiamo amici ma la verità è che si ingrassavano per trasformarli in salsicce. Cruda e amara ma è la verità.
Era l'ultimo mese dell'anno e il monastero si svuotava con i giovani che tornavano alle loro case per le vacanze natalizie. Tuttavia il lavoro non mancava! Io e i miei amici rimanevamo anche per la lavorazione dei maiali affidata al norcino Roberto di Passo Corese. Ma servivano braccia per fare tante piccole cose come, ad esempio, la pulizia delle cotenne che poi finivano tra i fagioli. Anche questa una vera bontà! Insieme a noi anche fra Mauro, fra Lorenzo, fra Pacifico e fra Bruno che erano sempre pieni di energia nonostante la sveglia delle cinque li portasse a pregare ogni mattina.
Ci sentivamo protetti da questi monaci che non ci facevano mancare nulla. Dormivamo in una stanza del monastero con tre letti che ci aspettavano con tutta la nostra stanchezza. In particolare ricordo la fatica del sabato. Considerando che l'indomani, la domenica, sarebbero arrivati i genitori facoltosi dei collegiali interni, dovevamo lustrare alla buon ora l'ingresso e il corridoio con petrolio e segatura. Alla fine ci si poteva specchiare ma quanto dolore alla schiena!
Il nostro giorno di riposo era il lunedì ma a turno che equivaleva a lunghi periodi in Abbazia. Solitamente il viaggio verso Mompeo si faceva a piedi e poi il martedì, come da accordi con l'autista che passava a prendere i giovani del territorio locale che studiavano a Farfa, tornavo comodo e in tempo con l'autobus. Dell'ultimo pezzo in salita che mi avrebbe portato a casa sento ancora l'ultima goccia di sudore!
Ma almeno da cameriere mi sono risparmiato le punizioni che gli studenti vivevano quando non rigavano dritti. Don Franzoni era di poche parole come le sue ammonizioni che consistevano nello spedire lo studente nella camera delle punizioni dove avrebbe mangiato, studiato e dormito da solo per un giorno intero. Mi ricordo ancora la sua voce quando ci chiamava e diceva: "Portatelo su!".
Noi eseguivamo alla lettera gli ordini con in mano la chiave della stanza non amata. Il soffitto era basso ed ogni volta mi dovevo piegare per non ripetere le prime dolorose "capocciate".
Il clima non era sempre così severo. Anche i collegiali interni (gli esterni erano quelli che vivevano nei paesi limitrofi) erano simpatici e sempre molto cortesi con noi. Erano ricchi e facoltosi. Ricordo il figlio del proprietario del pastificio romano Pantanella e quello del giurista Caligiuri. Mi sfuggono i nomi. Poi c'era il barone Ignazio Giunti che più di tutti è rimasto nella mia memoria perché mi sono ritrovato per caso di fronte alla sua bara.
Era il 1968 e lavoravo a Roma come cameriere al ristorante il Ceppo in piazza Ungheria. Un giorno seppi che ci sarebbero stati i funerali del barone Giunti proprio nella chiesa di San Berardino, vicino al ristorante. Fu un colpo al cuore vedere il feretro con sopra il casco. Era morto per un incidente durante una gara automobilistica a Buenos Aires. In quel momento tornarono tra la testa e il cuore tutte le immagini del tempo lontano quando lui, più grande di me, entrava e usciva dall'Abbazia insieme ai suoi amici.
Erano tanti e alla fine dell'anno scolastico tutti molto sorridenti. Ricordo che a luglio affiggevano sulla parete che guarda l'ingresso che conduce ai piani bassi dove un tempo c'era la caldaia a legna, un grande grafico con tutti i nomi dei licenziandi del terzo liceo. Una volta trovai don Franzoni che fissava il riquadro come se fosse in meditazione. In quella stessa area c'erano l'economato con il responsabile don Tommaso Ceccarelli, il parlatorio dove gli insegnanti incontravano i genitori e la sala delle commissioni d'esame.
Giorni duri per gli studenti sotto esame ma anche per noi che dovevamo servire in giacca bianca. E infatti nella foto sono con Ludovico Tiburzi davanti all'Istituto Cremonesi nella nostra tenuta ufficiale in una di quelle giornate che non finiscono mai: Ludovico è morto ma nei miei ricordi non si è mai spento.
Quante risate ci siamo fatti. Soprattutto con l'arrivo di don Zanoni che è stato davvero un padre geniale! Fumava la pipa e gli regalavano scatole di sigarette americane. "Tenete e fumate!" ci diceva. Quando entravo nel suo appartamento mi sembrava di stare in un altro mondo pieno di animali imbalsamati, prevalentemente uccelli, ma anche attrezzi del suo laboratorio dove sperimentava le sue conoscenze. Era uno scienziato ed è noto, o almeno si diceva, che avesse collaborato con Albert Einstein e che fosse amico del prof. Rocchi, il medico di papa Pacelli.
Ma ciò che più mi incuriosiva era il suo gabinetto radiologico, oggi gli uffici parrocchiali, dove faceva le lastre a tutti. Una volta ci portai anche mamma. Aveva l'aria di chi fosse sempre tra i suoi pensieri e teorie. Era calmo, beato, tranquillo ma anche molto schietto e simpatico. "Voi lavorate spesso e troppo! Dovete lavorare anche di mascelle. Dovete mangiare molto per lavorare!" ci diceva allungandoci le sigarette.
Ero sempre curioso di fronte al sapere. Quando il bibliotecario don Eugenio Setale ci chiamava per aiutarlo a spostare montagne di manoscritti ero sempre molto cauto e rispettoso dei documenti. Percepivo che avessero un grande valore anche perché don Eugenio che era di Castellamare di Stabia ad ogni passo ripeteva: "Uagliò fate attenzione, non rovinate i libri per carità!".
Parlare di Farfa, dell'Abbazia, del tessuto umano che ho avuto la fortuna di incontrare significa non trovare mai una fine".