Transito di San Benedetto, le celebrazioni di mercoledì 21 marzo nella chiesa abbaziale!
mar192023

Mercoledì 21 marzo si celebra il "transito" ossia l'anniversario della morte di San Benedetto da Norcia, fondatore dell'ordine dei Benedettini, venerato da tutte le chiese cristiane che riconoscono il culto dei Santi e proclamato patrono d'Europa da papa Paolo VI nel 1964. Per l'occasione la Comunità benedettina dell'Abbazia di Santa Maria di Farfa celebrerà le SS Messe alle ore 7:25 e alle ore 18 (con l'accompagnamento della Corale Mompeo-Farfa) nella chiesa abbaziale.

PILLOLE DI STORIA (fonte: P. Giuseppe Tamburrino o.s.b., "Sotto gli occhi di Dio. La figura di San Benedetto nel II Libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno", Edizioni Abbazia di Praglia, 2006)

Le fonti che abbiamo a disposizione per capire la figura di San Benedetto sono il II Libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno e la Regula monasteriorum che è frutto non solo di quanto lo stesso santo ha appreso da altre Regole e autori monastici ma soprattutto della sua esperienza personale.

Nato circa nel 480 a Norcia da una famiglia benestante, venne inviato a Roma per gli studi letterari ("liberalibus litterarum studiis" scrive Gregorio) ma, dopo una breve esperienza nella grande città, decise di ritirarsi dal mondo perché "ebbe in disprezzo i beni temporali che pure avrebbe potuto godere in abbondanza" (2 D Prol.). Una scelta e non una fuga la sua. Una scelta ardua quella di incamminarsi per la "via stretta" che è ben più difficile della "via larga" e della quale il Signore dice: "Angusta è la via che conduce alla vita".

Prima del monachesimo benedettino esistevano diverse espressioni di vita monastica sia in Occidente sia in Oriente.  San Gregorio spiega come san Benedetto abbia fatto esperienza personale di diverse forme di vita monastica. Comincia con un'esperienza di tipo ascetico-anacoretico ad Affile per poi passare all'esperienza eremitica nello Speco di Subiaco. Dopo un'esperienza negativa a Vicovaro e in virtù del numero crescente di discepoli, inizia ad organizzare la vita cenobitica che troverà massima fioritura a Montecassino peraltro descritta nella santa Regola.

Partito da Roma, giunse con la sua nutrice a Engide o Affile, a una settantina di chilometri da Roma. Qui visse una forma di ascetismo individuale presso la chiesa di Enfide, in una vita ritirata, dedita alla preghiera e al lavoro per guadagnarsi da vivere.

Gregorio Magno scrive:
"Un giorno la nutrice chiese in prestito alle vicine un vaglio di coccio, per mondare il frumento; avendolo lasciato sbadatamente in un angolo del tavolo, per caso esso cadde e si spezzò in due. Quando la donna rientrò e si accorse dell'accaduto, incominciò a piangere, desolata, poiché le si era rotto proprio l'utensile avuto in prestito. Benedetto, giovane buono e sensibile qual era, vedendo la sua nutrice in pianto, si mosse a pietà della sua afflizione; prese con se le due parti del vaglio spezzato, si ritirò in profonda preghiera accompagnata dall'intensità delle lacrime. Quando si rialzò dall'orazione vide accanto a sé il vaglio talmente intatto, da non poter scorgere in esso la minima traccia di rottura".

Questo primo miracolo, destò l'ammirazione degli abitanti del luogo che vollero appendere il vaglio sopra la porta della chiesa perché tutti potessero conoscere la perfezione di Benedetto. Ma il giovane Benedetto, che non cercava la gloria nel mondo, decise di lasciare tutto alla ricerca di un luogo solitario. Così approda allo Speco con l'intento di isolarsi completamente dagli uomini per dedicarsi solo a Dio.

Gregorio Magno scrive:
"Fuggito da Affile, Benedetto cercò un nascondiglio in un luogo solitario di nome Subiaco (2 D 1, 14). E mentre si inoltrava in quel luogo, lo incontrò un certo monaco di nome Romano, che gli domandò dove andasse; conosciuto il suo desiderio, ne mantenne il segreto, lo aiutò, gli impose l'abito della vita santa (monastica) e, per quanto gli fu possibile, provvide alle sue necessità (2 D 1, 16-17). L'uomo di Dio, giunto in quel luogo, si ritirò in una grotta molto angusta e vi rimase per tre anni, ignoto a tutti, fuorché al monaco Romano" (2 D 1, 18).

In questa solitudine quasi assoluta fu messa alla prova la serietà della sua vocazione attraverso una serie di prove sia materiali sia spirituali che lo portarono ad una profonda crescita attraverso la preghiera, la lectio-meditatio, l'esercizio della presenza di Dio, il lavoro per procurarsi da vivere.

Tra le prove superate, Gregorio ricorda la tentazione della carne. Scrive:
"Un giorno, mentre se ne stava solo, gli si avvicinò il tentatore. Ecco, un piccolo uccello nero, un merlo, incominciò a svolazzargli attorno; insistente e importuno, gli sbatteva le ali sul viso, tanto che, volendolo, il santo avrebbe potuto prenderlo con le mani. Egli però fece il segno di croce, e l'uccello se ne volò via. Ma, appena l'uccello si fu allontanato, lo colse una così violenza tentazione sensuale, quale mai il santo eremita aveva provata. Il maligno gli richiamò alla mente le sembianze di una donna vista in tempo lontano, e infiammò a tal punto l'animo del servo di Dio al ricordo di quella figura così bella, che egli non riusciva più a contenere il fuoco della passione; ormai, vinto dal desiderio, aveva quasi deciso di abbandonare il suo eremo. All'improvviso però, illuminato dalla grazia tornò in sé; scorse allora lì accanto una fitta macchia di ortiche e di rovi; si levò gli abiti, si gettò nudo e si avvoltolò fra le spine pungenti e le ortiche brucianti come fuoco. Sradicò in tal modo, mediante le lacerazioni della carne, la pianta maligna che aveva allignato nel suo cuore; trasformò infatti la tentazione carnale in dolore fisico, e mentre per sua volontà bruciava fortemente all'esterno, estinse la passione che gli ardeva nell'intimo. Vinse dunque il peccato, mutando l'incendio" (Capitolo 2).
 
Dopo le sofferenze rette con fede e volontà, ricevette la visita di un sacerdote inviato da Dio nel giorno di Pasqua. Gregorio scrive:
"Quando a Dio onnipotente piacque ormai concedere a Romano riposo dalla sua fatica e manifestare agli uomini la vita esemplare di Benedetto, perché la lucerna posta sul candelabro illuminasse tutti quelli della casa, apparve in visione a un prete che abitava un poco più distante. Questi aveva preparato il suo pasto per la festa di Pasqua. Il Signore gli disse: «Tu hai pronto un buon pranzo, mentre il mio servo che sta in quel luogo deserto è tormentato dalla fame». Il prete subito si alzò e si diresse in quello stesso giorno di Pasqua verso la località indicatagli, portando con sé le vivande che si era preparate. Cercò l'uomo di Dio per dirupi, per valli e anfratti, e finalmente lo trovò nascosto nello speco" (2 D 1, 28-35).

Si avvicinava l'esperienza a Vicovaro. Dopo la visita del monaco, iniziarono altri "incontri" legati alla forza della sua luce come quello con i pastori.

Gregorio scrive:
"In quel medesimo tempo anche alcuni pastori scoprirono Benedetto nascosto nella grotta. Avendolo intraveduto coperto di pelli tra i cespugli, lo avevano creduto un animale selvatico; ma quando si accorsero che egli era un servo di Dio, molti di essi passarono dal livello di vita dell'uomo animale alla grazia di un vero fervore religioso" (2 D 1, 36-37).

Dopo la scoperta del giovane eremita da parte dei pastori, il nome di Benedetto si diffuse nei paesi vicini e anche presso i monaci di un monastero tra Subiaco e Tivoli, che la tradizione ha individuato a Vicovaro. Essendo da poco morto il loro abate, i monaci chiesero con insistenza al "venerabile" Benedetto di mettersi alla guida della loro comunità. Benedetto, che era a conoscenza del loro tenore di vita piuttosto rilassato, tentò di declinare l'incarico ma, vinto dalla loro insistenza, accettò. Così il giovane abate estese la sua austerità di vita anche a livello comunitario. Ma il contrasto tra i due generi di vita era così profondo che i monaci, non disposti ad abbandonare certe loro abitudini, decisero di dargli la morte con il veleno. Ma il Signore lo salvò.

Gregorio scrive:
"Benedetto, stesa la mano, fece il segno di croce e subito la brocca di vetro, pur essendo tenuta a una certa distanza da lui, si ruppe e andò in frantumi, come se egli anziché fare il segno di croce, avesse lanciato un sasso contro quel vaso che conteneva veleno di morte. L'uomo di Dio comprese immediatamente che nel recipiente c'era la bevanda mortale, proprio perché non aveva potuto resistere al segno della Vita" (2 D 3, 12-14).

Con volto sereno e animo pacato, l'abate Benedetto invitò i fratelli a cercarsi un padre "che sia secondo i vostri gusti".
Benedetto tornò al Sacro Speco, "al luogo dell'amata solitudine" per immergersi nell'esercizio ascetico delle virtù cristiane e nella contemplazione. Tuttavia non rimase nascosto perché la sua "santità" attirava devoti ma anche coloro che desideravano restare per mettersi al servizio del Signore.

Così nacquero le comunità cenobitiche instituite da San Benedetto nella Valle dell'Aniene. San Gregorio racconta che costruì dodici monasteri, nei quali collocò dodici monaci e un proprio abate mentre egli abitò con altri monaci in un tredicesimo monastero. L'attività organizzativa dovette durare una ventina d'anni, circa: dal 510 al 530, data del suo trasferimento a Montecassino.

Già in questo primo esperimento di comunità applica quei criteri evangelici che ritroveremo nella Regola:
"L'abbate non faccia distinzione di persone in monastero. Non ami più uno di un altro…; non anteponga mai il nobile a chi è entrato in monastero venendo dalla condizione di schiavo…, perché schiavi o liberi, siamo tutti uno in Cristo e, servendo un unico Signore, siamo tutti sottoposti alla stessa disciplina" (RB 2, 16-20).

A tal proposito è interessante vedere come San Benedetto accogliesse tutti: anche i popoli barbari che stavano invadendo l'Italia. Gregorio, infatti, ricorda la presenza di un goto, ricevuto ed accolto nella comunità guidata direttamente da San Benedetto.
Accresciuta la sua fama di santità e la sua popolarità, crebbe anche l'invidia negli occhi di un prete di una chiesa vicina di nome Fiorenzo che cercò, senza mai riuscirci, di screditarlo per distogliere la gente dall'andare a visitarlo. Cercò, infine, di avvelenarlo con un pane che avrebbe dovuto essere benedetto.

Scrive Gregorio:
"Accecato dalle tenebre dell'invidia, giunse fino al punto di mandare al servo di Dio onnipotente un pane avvelenato, come se fosse un'offerta di pane benedetto. L'uomo di Dio lo accettò ringraziando, ma non gli sfuggì l'insidia nascosta nel pane. Verso l'ora del pasto, soleva venire dalla vicina foresta un corvo che riceveva dalle sue mani un po' di pane. Quel giorno il corvo venne come sempre; l'uomo di dio gli gettò davanti il pane che aveva ricevuto dal prete, e gli comandò: «Nel nome del Signore Gesù Cristo, prendi questo pane e gettalo in un luogo dove nessuno lo possa trovare». Il corvo aprì il becco, stese le ali e incominciò a svolazzare attorno al pane gracchiando come se volesse dire che era pronto all'obbedienza, ma non poteva eseguire l'ordine. Benedetto gli ripeté più volte «Prendilo, prendilo senza paura e gettalo dove nessuno possa trovarlo». Dopo aver indugiato a lungo, finalmente il corvo lo prese, si alzò in volo e si allontanò. Passate circa tre ore, ritornò senza il pane e ricevette dalla mano dell'uomo di Dio il cibo consueto. Il venerabile Padre però, vedendo che l'animo del sacerdote si faceva sempre più ostile contro la sua vita, ne provò dolore più per lui che per se stesso. Fiorenzo, infatti, fallito il tentativo di uccidere il corpo del maestro, si accese del desiderio di uccidere le anime dei suoi discepoli. Con questo intento, introdusse nel giardino del monastero in cui si trovava Benedetto, sette fanciulle nude che, tenendosi per mano e danzando a lungo sotto i loro occhi, eccitassero i loro cuori a desideri sensuali".

San Benedetto, preoccupato per i fratelli più giovani e capito che le macchinazioni traevano origine dal malanimo del prete nei suoi confronti, decise di lasciare Subiaco e, presi con sé alcuni monaci, "se ne andò ad abitare altrove".

Così, giunto sul Monte di Cassino – luogo di culto pagano, dedicato ad Apollo - iniziò una nuova tappa del suo cammino spirituale. San Benedetto avviò l'opera con l'adattamento dell'ambiente distruggendo le vestigia del paganesimo (il tempio, l'ara e i boschetti dedicati ad Apollo) e trasformandolo in luogo cristiano e monastico con tutti gli ambienti richiesti per lo svolgimento della vita comunitaria. La Regola, la cui ultima redazione fu stilata a Montecassino, riflette per certi aspetti la comunità e gli edifici di quel momento.

Della sua vita a Montecassino, san Gregorio lo ricorda anche come operatore di miracoli, dotato di spirito profetico e autore della Regola:
"Non voglio tuttavia lasciarti ignorare come l'uomo di Dio, oltre ad essersi reso famoso davanti al mondo per tanti miracoli, rifulse anche e non poco per la sua dottrina spirituale. Egli scrisse infatti una Regola per i monaci, insigne per la sua discrezione, limpida nel suo stile. Chi dunque volesse conoscere più a fondo il suo tenore di vita, può trovare nelle stesse prescrizioni della regola lo specchio di un magistero incarnato nella sua persona: infatti il santo non poté nel modo più assoluto insegnare diversamente da come visse."

La sua Regola, umana e saggia sintesi del Vangelo, organizza nei minimi particolari la vita dei monaci all'interno di una "corale" celebrazione dell'Opus Dei, cioè della liturgia quotidiana, diede nuova ed autorevole sistemazione alla complessa, ma spesso vaga e imprecisa, precettistica monastica precedente.

I due cardini della vita comunitaria sono il concetto di stabilitas loci (l'obbligo di risiedere per tutta la vita nello stesso monastero contro il vagabondaggio allora piuttosto diffuso di monaci più o meno "sospetti") e la conversatio, cioè la buona condotta morale, la carità reciproca e l'obbedienza all'abate, il "padre amoroso" (il nome deriva proprio dal siriaco abba, "padre") mai chiamato superiore, e cardine di una famiglia ben ordinata che scandisce il tempo nelle varie occupazioni della giornata durante la quale la preghiera e il lavoro si alternano nel segno del motto ora et labora ("prega e lavora"), con il sostegno della lectio divina, cioè la meditazione della Parola di Dio.

San Benedetto morì a Montecassino il 21 marzo 547.

Gregorio scrive:
"Sei giorni prima di morire si fece aprire la sua tomba. Ben presto fu colto da febbri violente che cominciarono a stremarlo. Poiché di giorno in giorno la malattia si aggravava, al sesto giorno si fece portare dai suoi discepoli nell'oratorio: là si fortificò per il suo transito ricevendo come viatico il Corpo e il Sangue del Signore. I discepoli sostenevano tra le loro braccia il suo corpo debilitato; egli si tenne così ritto in piedi, con le mani levate al cielo, e nell'atto stesso di effondersi in preghiera, rese l'ultimo respiro".
 
Foto: opera del Maestro Francesco Verola che ha ritratto nell'aula capitolare del monastero benedettino di Farfa "Tre momenti della vita di San Benedetto" leggi al link: https://www.abbaziadifarfa.it/redazione/articoli/aula-capitolare-l-opera-sulla-vita-di-san-benedetto-del-maestro-francesco-verola/362 )